di Massimo Gervasi
Sappiamo bene che il giornalista non si tocca. Ma forse, ogni tanto, andrebbe “ritoccato” il giornalismo, quello fatto di regole troppo piegate al libero arbitrio, di schieramenti dichiarati o mascherati, e di verità adattate al contesto politico del momento.
Perché diciamolo chiaramente: in Italia, da tempo, non è più la notizia a scegliere il giornalista, ma il giornalista a scegliere da che parte stare. E questo, nel Paese dei talk show e dei comunicati copia-incolla, significa spesso una sola cosa: la verità è in affitto.
Ecco perché il caso di Report e Sigfrido Ranucci è diverso. Lì non c’è convenienza né appartenenza, ma una scelta forte e libera. Libera di disturbare il potere economico e politico, di scavare nei bilanci delle banche e nelle opacità di governo,di toccare argomenti che il giornalismo “comodo” preferisce lasciare intatti.
Non è un caso se le inchieste di Ranucci hanno spesso scoperchiato ciò che in Italia si definisce, con un certo pudore, “materia sensibile”: finanza, appalti, affari pubblici e privati.
E non è un caso se ora, quando una bomba viene piazzata nei pressi della sua abitazione, la “quadra” sembra quasi immediata. Il difficile, semmai, è ammetterla.
Perché in questo Paese le verità più scomode vengono spente in fretta, inghiottite dall’ombra dell’ipocrisia o di comode narrative che spostano l’attenzione altrove. E così, mentre si invocano “solidarietà” e “ferma condanna”, qualcuno già lavora per disorientare l’opinione pubblica, indicando falsi colpevoli o “piste alternative”.
Ma, come dicono i migliori investigatori, “il colpevole torna sempre sul luogo del delitto”.
E allora basterebbe guardarsi intorno, osservare chi ha manifestato con troppa rapidità la propria vicinanza a Ranucci, come se la solidarietà preventiva potesse lavare le mani da vecchi fastidi.
Perché in questo Paese, dove i rapporti tra potere e informazione si consumano nei corridoi più che nelle redazioni, chi teme la verità è sempre il primo a professarsi difensore della libertà di stampa.
E poi c’è il tritolo.
Un ritorno che sa di déjà-vu, che richiama altri tempi e altri scenari.
“Sarà avanzato qualcosa dalla strage di Capaci?” — qualcuno ironizza, ma la domanda, amara, resta sospesa.
Perché se dopo anni di silenzio e obbedienza, il tritolo torna a parlare, forse vuol dire che qualcuno ha ricominciato a reagire.
Forse vuol dire che, malgrado tutto, un pezzo di giornalismo italiano non si è arreso.
E allora, nel Paese dove la cronaca si traveste da gossip e la satira viene censurata, servono voci come quella di Ranucci. Voci che non si piegano, che pagano di persona, ma che continuano a fare il mestiere più pericoloso e più nobile che ci sia: raccontare la verità.
Oggi più che mai, serve dirlo forte:
Forza Report.
Forza Ranucci
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