di Massimo Gervasi
L’intelligenza artificiale sta già entrando negli ospedali europei dalla porta principale: diagnostica radiologica, triage automatizzati, chatbot che rispondono ai pazienti, sistemi predittivi che decidono quando un malato peggiorerà.
Una rivoluzione che non aspetta nessuno e che avanza più veloce dei governi che dovrebbero regolamentarla. È questo il grido d’allarme lanciato dall’OMS Europa, che nel suo ultimo rapporto denuncia un paradosso inquietante: l’IA sta diventando un attore centrale nella sanità, ma la maggior parte dei Paesi non ha ancora stabilito regole, responsabilità, controlli e garanzie minime per proteggere i cittadini.
La fotografia è impietosa. Su 53 Paesi della regione europea, solo 4 hanno una strategia nazionale dedicata all’IA in sanità. Gli altri o stanno “pensando di farla”, oppure vanno avanti alla cieca. E nel frattempo, 32 Paesi stanno già utilizzando strumenti diagnostici basati su IA. Insomma, la tecnologia corre, la politica arranca, e in mezzo ci sono i pazienti. A confermare la gravità della situazione è lo stesso direttore regionale dell’OMS, Hans Kluge, che avverte: senza regole chiare e tutela dei dati, la sanità rischia di trasformarsi in un campo minato dove le disuguaglianze aumentano invece di ridursi.
Se un algoritmo sbaglia diagnosi?
E qui arriviamo al nodo più scomodo: chi è responsabile se un algoritmo sbaglia diagnosi? Perché nessuno lo dice, ma è già successo: l’IA non è infallibile. Impara dai dati, e se i dati sono sporchi, distorti, incompleti, lo saranno anche le sue decisioni. Se un software indica un tumore dove non c’è, o non lo rileva dove invece c’è, chi paga? Il medico? L’ospedale? L’azienda che ha creato l’algoritmo? La risposta dell’OMS è lapidaria: nel 90% dei Paesi, non esiste ancora una norma che lo stabilisca. Il risultato? Medici spaventati e pazienti senza un percorso di ricorso.
E mentre l’Europa discute di AI Act e di spazi digitali per i dati sanitari, l’Italia osserva, come sempre, con un piede dentro e uno fuori. Le sperimentazioni iniziano, gli ospedali introducono software intelligenti, ma una strategia nazionale non c’è, una visione unitaria non esiste, la formazione è lasciata alla buona volontà dei singoli dirigenti sanitari. È la solita storia: l’innovazione arriva dall’alto, la responsabilità ricade sul basso. E nel mezzo ci sta un Servizio Sanitario Nazionale che già fatica a gestire liste d’attesa, carenze di personale e strutture logore.
L’IA promette una sanità più efficiente, più veloce e persino più equa. Ma senza paletti etici e legali, rischiamo l’esatto contrario. Rischiamo che le regioni ricche abbiano sistemi più avanzati e quelle povere restino indietro. Rischiamo che i pazienti più fragili diventino cavie inconsapevoli. Rischiamo che la privacy dei cittadini finisca per alimentare algoritmi privati senza alcun controllo democratico.
Un bivio storico
L’OMS lo dice chiaramente: siamo a un bivio storico. Possiamo usare l’IA per migliorare le cure, alleggerire il peso sugli operatori, ridurre i costi. Oppure possiamo spalancare la porta a un sistema diseguale e opaco, dove le macchine decidono e le persone subiscono.
La verità è che il tempo per pensarci è già finito. L’IA non è una promessa futura: è una realtà presente. Quindi i governi e lo Stato italiano per primo, devono smetterla di inseguire e iniziare a guidare. Serve una strategia nazionale vera, non un documento di tre pagine. Servono leggi chiare sulla responsabilità, serve formazione obbligatoria per medici e infermieri, servono piattaforme sicure per i dati sanitari e un controllo pubblico rigoroso su come gli algoritmi vengono sviluppati e utilizzati.
Perché l’IA può rivoluzionare la sanità, sì. Può salvare vite, ridurre errori, aumentare l’efficienza. Ma solo se mettiamo le persone, non le macchine, non le aziende, non gli slogan, al centro delle decisioni. Il rischio altrimenti è che la sanità del futuro non sia più un diritto universale, ma un software in beta test. E a quel punto, caro paziente, buona fortuna.
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